Un nuovo modello di leadership ecclesiale

VERSO UNA LEADERSHIP ANTIFRAGILE

Fabrizio Carletti

Guidare e prendersi cura di una comunità dentro la prospettiva antifragile richiede dei leader antifragili. Il termine leader o leadership non è ancora molto in uso nella discussione teologica e pastorale in Italia, rispetto invece ad altri contesti internazionali, dove è usato in modo neutro, non specifico per il mondo aziendale. In questo articolo ci riferiamo al leader come a colui che nella Chiesa ha un ruolo gerarchico e/o sacramentale di guida di una Diocesi, o di un Ufficio, o di una congregazione o comunità.

Chi guida è bene che sia consapevole che ha in mano un potere. Anche il termine ‘potere’ è un vocabolo neutro se preso con la giusta accezione. Dipende se si assume come verbo o come sostantivo. Se è un sostantivo definisce un possesso, un tenere per sé, un condurre l’altro a fare ciò che si vuole. Se è concepito come verbo, ed è questa l’accezione che ci riguarda, va inteso come la capacità di far succedere le cose. Implica quindi il tema della responsabilità. Si è responsabili in quanto si è posti in una posizione che ci permette di realizzare qualcosa insieme ad altre persone. Una responsabilità prima di tutto verso la propria vocazione, la missione che ci è chiesta di compiere, e verso gli altri che anche grazie a noi possono vivere in pienezza la propria vocazione.

NON BASTARE A SE STESSI: RICONOSCERE LA PROPRIA FRAGILITA’

Il leader antifragile è colui che riconosce la propria fragilità, il non ‘poter bastare a se stesso’ (vedi articolo https://missioneemmausblog.wordpress.com/2019/10/31/alle-radici-del-clericalismo/)

La pandemia e la relativa quarantena ci ha costretti ad operare dei tagli nei nostri modi di fare abitudinari, ci ha costretto a tagliare un piede, una mano, strapparsi via un occhio (Mc 9, 41-50) per uscire dall’autonomia e tornare ad essere veramente dipendenti dall’altro, non poter più bastare a se stessi. Come coloro che vanno ad annunciare senza portare con sé né una borsa né dei sandali, ma una parola di ‘pace’ (Lc 10, 4 o Mc 6, 9). Gesù svezzava continuamente gli apostoli, durante il loro tirocinio formativo, facendo sperimentare questa precarietà, questa dipendenza (vedi Mc 6, 45-52).

Il leader antifragile riconosce la propria fragilità per metterla in relazione con quella degli altri. Come la fragilità del Dio che si fa uomo per essere offerto alla fragilità degli uomini; non per risolvere i loro problemi, ma per generare una vita nuova.

IL LEADER COME ARCHITETTO DI SPAZI DI INCONTRO

La prospettiva che abbiamo introdotto, collegata ad un dato di realtà, il vivere in quello che è stato più volte definito un cambiamento d’epoca e non una semplice epoca di cambiamenti, richiede un approccio diverso alla leadership. Negli ultimi anni, infatti, aveva prevalso l’idea chi svolgesse un ruolo di governo presentasse agli altri una propria visione, così da ispirarli e indurli a metterla in atto. Principio non sbagliato ma valido in contesti stabili, di fronte a situazioni chiare e lineari, altrimenti rischia di essere controproducente. Se è richiesto discernimento, creatività pastorale, nessuno può in anticipo sapere quale sia la pista da seguire. La leadership allora non si preoccuperà più di ‘vendere’ una visione a persone spinte a metterla in pratica. Il leader antifragile si preoccupa di creare un ambiente (una cultura) dove potersi confrontare apertamente, condividere e sperimentare continuamente. Spazi in cui le persone possano svolgere una riflessione/discernimento serio per generare delle piste di lavoro che saranno in grado di percorrere. Per usare un’espressione più colorita: si tratta di allestire il palco più che di esibircisi sopra”.

Il leader cura l’architettura di questo ambiente, dove connettere le singole fragilità ma anche i singoli talenti, dove esporsi a tensioni, difficoltà, errori, ma in un clima di fiducia reciproca. Per fare questo occorre una comunità che condivida uno scopo, dei valori comuni, dei criteri: occorre garantire uno spirito comunitario, dove lo scopo (il perché) si intrecci con i valori e i criteri (il come) e con le prassi che si sperimenteranno (il cosa).

Un cambiamento profondo in una comunità non può essere imposto dall’alto, per decreto di un vescovo o la lettera pastorale di un parroco. Ma vanno poste le condizioni necessarie per consentire un germogliare graduale della novità. Vediamo quali sono gli ingredienti per ottenere questo e le relative attenzioni e competenze che una guida è chiamata a possedere.

PROMUOVERE LA COLLABORAZIONE E L’IMPEGNO DI TUTTI

L’emergenza Covid-19 ha fatto emergere in molte realtà un laicato che si è trovato spiazzato, impotente, incapace di reagire. Venendo meno la struttura ecclesiale che sosteneva la sua vita di fedele, non ha saputo da solo attivare una proposta né per sé né per mettersi in rete con altri della comunità. In alcuni casi si è sentito abbandonato e non ascoltato, perché si è cercato di coprire prima possibile un vuoto offrendo lui degli strumenti pronti, delle schede, dei video, dello streaming. Il dato di realtà ha quindi evidenziato che, al di là delle espressioni in voga nella pastorale in questi anni come corresponsabilità, ministerialità laicali, sinodalità, l’assenza di una capacità laicale di poter mettersi in gioco realmente con le situazioni. La cultura organizzativa predominante, per richiamare quanto espresso sopra, non era pensata per gestire queste situazioni, rispondeva più ad un modello gerarchico, verticistico più che diffuso, decentrato, responsabilizzante.

Non si può gestire una comunità antifragile con lo stile top-down tradizionale, dall’alto verso il basso. Chi viene da questa esperienza, in un contesto antifragile inizialmente si troverà di fronte ad un apparente caos e sentirà il bisogno di organizzare, mettere in ordine, dare struttura. Perché sentirà il bisogno di tenere sotto controllo tutto. Ma tenere tutto sotto controllo è mettere del tutto in discussione la corresponsabilità, la ministerialità, la sinodalità. Perché richiede di condividere un potere, la capacità cioè di far accadere le cose, condividendo delle scelte. Per promuovere l’impegno e la collaborazione a tutti i livelli bisogna coinvolgere le persone nel processo decisionale, di discernimento.

Una comunità antifragile non è una comunità che annulla i ruoli e la gerarchia. Semplicemente ridefinisce il ruolo del leader, che resta decisivo. È colui che è chiamato a generare luoghi di partecipazione e discernimento, che è chiamato ad accendere e curare la passione dei suoi collaboratori, che tiene coinvolte le persone, oltre a svolgere il suo proprio ministero ordinato.

CONDIVIDERE UN SOGNO

Una comunità impegnata a realizzare dei progetti, delle azioni pastorali, concentrata sul ‘cosa’, sul ‘fare’, non genera una reale coinvolgimento delle persone. L’appartenenza, il far sentire una persona parte di una missione, non si suscita a partire dall’impegno operativo, dal coinvolgimento. A volte si rischia di cadere in questo tranello. Più una persona è impegnata più quella persona si sente parte della comunità. Si tratta di un mito da sfatare. Ne abbiamo la prova in quanto se quella persona perde il suo incarico, o non può più svolgerlo per svariate ragioni (ad esempio la maternità), tende sempre meno a non partecipare a momenti di vita comunitaria.

Al contrario, è avere uno scopo che va al di là delle singole prassi, dei servizi, delle attività, degli incarichi, aumenta il livello di coinvolgimento, creatività e impegno. Inoltre, avere una missione condivisa, in cui tutti si crede, attira altre persone, talenti, gente che desidera spendersi per qualcosa di bello e importante dando il meglio di sé.

È la finalità, non il leader, l’autorità o il potere che crea e anima la comunità.

Per perseguire questa finalità insieme occorre accendere la passione delle persone, le quali cercano sempre di più un significato in quello che fanno, in cui sono coinvolti. La finalità porta le persone a fare bene, la passione a realizzare esperienze straordinarie, in grado di toccare gli altri. Ispirazione, entusiasmo, motivazione, eccitazione sono emozioni positive. Non vanno lasciate a casa.

Uno dei ruoli del leader è allora quello di attizzare quella passione con le proprie azioni. A volte vuol dire sposare la parte ludica e irriverente dell’attività, come una festa. Un leader del XXI secolo sa che non può trasmettere emozione in un e-mail, in una chat, in una telefonata. La passione è per sua natura personale. Richiede una partecipazione attiva.

Per chi è nuovo e va introdotto in un sogno comunitario, è opportuno pensare delle esperienze apposite. Anche momenti semi informali dove raccontare cosa sta a cuore alle persone che sono impegnate in quel luogo, quale stile le caratterizza, quali i riferimenti spirituali e valoriali. A prescindere se poi si vorranno far coinvolgere o meno in qualche servizio.

Per tutti gli altri, avere dei momenti durante l’anno in cui richiamare il sogno condiviso, la finalità, riassaporare i valori, rinarrare le esperienze che a partire da lì sono state generate.

DALLA PASSIONE AL COINVOLGIMENTO

Se la passione mirava al perché, creando significato ed eccitazione nel proprio servizio, il coinvolgimento punta al come e al cosa, convogliando la passione verso le azioni da compiere. Anche questo è compito di una buona guida, creare il contesto in cui questo possa avvenire.

In una comunità antifragile, dove muta il processo decisionale che si fa più diffuso e orizzontale, dove le comunicazioni non seguono sempre l’asse verticale e gerarchico (a cascata), ma siano più trasversali come i moderni sistemi di comunicazione richiedono, è importante che chi vi opera abbia interiorizzato il sogno, i criteri, i valori e le conoscenze condivise così da metterlo in grado di decidere e agire appropriatamente.

Sarà importante definire per le singole persone e gruppi della comunità uno spazio di autonomia, uno spazio di libertà di pensiero e azione, responsabilizzante e in grado di accrescere le capacità di giudizio dei singoli e dei singoli tra loro. Questo è coinvolgimento. Sapendo che si potranno compiere anche degli errori calcolati, piccoli perché non fatti su grandi progetti ma semplici sperimentazioni, tentativi di semina. Ma un realtà è creativa solo laddove si dà la possibilità di poter compiere degli errori. Errori che forniscono informazioni importanti e che subito si possono correggere e ritentare.

Questo consente anche molto meno controllo gerarchico. Più un’organizzazione coinvolge più si autocontrolla. Quando qualcuno si perde per strada è la comunità a risolvere il problema. Più si è responsabili dei propri compagni più è chiaro l’impatto delle proprie azioni e delle proprie decisioni.

Per cui il compito del leader è spiegare la strategia, il suo perché, raccogliere feedback, coinvolgere i membri della comunità in una conversazione sulle decisioni che si stanno prendendo.

L’ascolto porta via molto tempo ma va compreso che è parte del proprio compito di una guida, non è una cosa aggiunta, altrimenti diviene solo una sofferenza. Per coinvolgere le persone del resto occorre tempo e non è un lavoro delegabile. E le lamentele fanno parte del coinvolgimento. È essenziale rispondere a chi subisce l’impatto delle vostre decisioni. È anche un modo per rinforzare la propria leadership.

L’ultima barriera per un leader è ammettere i propri errori. Spesso di ha paura di apparire incompetenti o deboli di fronte ai propri collaboratori. In realtà si infonde un forte senso di lealtà e di fiducia in loro.

La responsabilità di un leader è quindi quella di fornire il contesto, la cornice di riferimento e la spiegazione dei motivi che vi hanno indotto a seguire quel determinato percorso.

Una guida antifragile svolge quindi l’importante ruolo di sviluppare leader intorno a sé e non semplici esecutori.

UN SANO CONFLITTO INTERNO

Una guida antifragile non teme la presenza di discussioni che possano scatenare un dibattito acceso e appassionato. Deriva dalla passione per il proprio servizio e dall’aver creato un contesto di fiducia reciproca: so che non sono sfidato su di me come persona ma sulle idee, solo queste possono essere messe in discussione e criticate. Le intuizioni migliori vengono fuori quando le persone hanno la possibilità di discutere apertamente e animatamente. Ovviamente si fa riferimento a discussioni educate e motivate, che non vanno oltre la correttezza.

Il valore della libertà infatti, permette di esprimersi sempre in modo aperto e diretto. Senza paura di ripercussioni, in un clima diffuso di fiducia. Importante è far percepire che se vieni criticato non sei tu ma la tua idea che è stata presa sotto esame. Idee e persone non sono la stessa cosa. Incoraggiare il dibattito e celebrare le idee migliori indipendentemente da chi vengono, permette di avere persone più coinvolte, collaborative e innovative. Se avete più verità nei corridoi che nelle riunioni, avete un problema!

CREARE UNO STILE DI LAVORO

Prendere una decisione dall’alto, per decreto, è un processo rapido ma una volta presa occorre applicarla, e introdurre i cambiamenti che prescrive. Quasi tutti i grandi progetti di cambiamento sono destinati a fallire perché non tengono conto di questi fattori.

È vero che ci sono decisioni che vanno prese dall’alto qualche volta. Se ci sono tempi brevi su questioni impellenti o legate ad ambiti specifici di competenza. Ma in questi casi una buona guida chiarisce subito la situazione, dichiarando la sua scelta e non fingendo di discuterne con gli altri. Non c’è cosa peggiore per perdere la fiducia dei collaboratori, di farli discutere su una decisione già presa. 

Uno dei benefici del ruolo di leader è la possibilità di creare luoghi di incontro per i collaboratori, insieme con il potere di fissare l’agenda per un’ampia gamma di conversazioni che si terranno in tutta la comunità. La possibilità di creare piccole scintille che possono attizzare grandi incendi. Questi incendi si alimentano grazie alla collaborazione, la sperimentazione continua, la scoperta, e il coinvolgimento nel processo decisionale mediante il discernimento individuale e comunitario. Si mettono così le basi per una nuova cultura di comunità.

1 commento su “Un nuovo modello di leadership ecclesiale”

  1. Il modello di “antifragilità” applicato alla pastorale mi sembra straordinariamente attuale ed adeguato alla contingenza che stiamo vivendo.
    Tanto più forte e condivisa è la crisi, tanto più forte sarà la possibilità di trarne l’energia per soluzioni nuove!
    Grazie, quindi, per questa proposta.

    Reagisco all’articolo con alcune considerazioni quali contributo alla riflessione.

    La prima riguarda la parrocchia, Chiesa tra le case, che in prospettiva “antifragile” assume nuove connotazioni, anche nella prospettiva di un passaggio verso nuclei più piccoli.
    A patto che cambi.
    La parrocchia oggi è “fragile” piuttosto che “antifragile”.
    Come può il “leader antifragile” inserirla nella nuova prospettiva? Quali elementi sono d’ostacolo e su quali si può fare leva?
    La questione non si risolve certo in qualche riga, tuttavia segnalo due aspetti.
    Il primo riguarda quella che potremmo chiamare “selezione innaturale” dei membri delle “comunità parrocchiali”, siano essi sacerdoti, consacrati o laici.
    Fino ad oggi tale tipo di selezione ha privilegiato le presenze di tipo “fragile”, rendendo l’ambiente non accogliente per le presenze di altro tipo.
    Coerentemente, le comunità sono divenute sempre più “fragili”.
    Per andare verso l’”antifragilità” sarà quindi necessario modificare, ibridare la composizione delle nostre comunità.
    Tuttavia, le persone “non accolte” dal criterio selettivo non torneranno se la “casa comune” non cambierà. Parimenti le nuove. Ma la “casa comune” come potrà cambiare se è priva di elementi “antifragili”?

    In questa direzione servirà un impegno molto forte da parte del “leader antifragile”.

    Il secondo aspetto riguarda la complessità della “governance diocesana matriciale” cui le “comunità locali” sono sottoposte. Essa è composta dalla gerarchia della territorialità (diocesi, vicaria, unità, parrocchia), lungo il primo asse, e dalla gerarchia funzionale/settoriale dei “centri diocesani”, lungo il secondo asse.
    Ogni comunità deve quindi rispondere a due tipi di “potere” (intendendo il termine “potere” come descritto dall’articolo) di cui il primo è chiaramente piramidale mentre il secondo si manifesta con più linee parallele. Una complessità palpabile che stride con la prospettiva “antifragile”.

    In conclusione, i leader “antifragili” come le comunità che vogliano divenire “antifragili” hanno davanti una prospettiva con le sue complessità ma certamente affascinante! Sappiamo, poi, di non essere soli.

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